Il Laborintus poetico

Il Laborintus poetico

Raffella Cavaletto

Una nuova poetica, un nuovo modo di intendere la poesia.
Il 31 dicembre 1950, la notte di Capodanno, un giovane Edoardo Sanguineti prendeva spunto dal titolo di un testo medievale (Titulus est Laborintus quasi laborem habens intus) e si accingeva a scrivere la sua prima raccolta di poesie (conclusa nel 1954). Significativo che nello scritto antico -a cui Sanguineti si stava richiamando- si teorizzava non solo lo stile poetico, ma si proponeva anche una pedagogia per canonizzare il testo lirico e per insegnare a comporre. A tal proposito, in una recente intervista (Abecedario di E. Sanguineti, Genova 2006), lo stesso Sanguineti ha ammesso, sorridendo, la sua propria arditezza giovanile e la presunzione di voler dettare nuove regole per intendere la poesia, fra l’altro, proprio all’interno di quel suo primo lavoro, il Laborintus.
Ma, al di là del riferimento filologico al testo medievale e all’anonimo pedagogo autore di quest’ultimo, il termine laborintus richiama anche il regno della contorsione dei significati (è Sanguineti ad affermarlo, sempre nell’intervista sopra citata). Infatti, metaforicamente il labirinto rappresenta la strada che il linguaggio deve percorrere per perdersi. Ed è proprio la perdita delle certezze, delle definizioni logiche e lo smarrimento dei sistemi di riferimento linguistici a far sì che la poesia sia tale. Così non esiste più una lingua (presumibilmente l’italiano). Al contrario, si sovrappongono mille linguaggi, i quali creano un dedalo di strutture semantiche e sintattiche differenti (dal greco si spazia all’inglese, dal latino al francese).
In questo labirinto dei significati –nella poesia, così come intesa dal giovane Sanguineti- si muovono personaggi multiformi. Questi ultimi si incrociano nelle vie (nei versi), come se rappresentassero, nel loro insieme, un alter ego eclettico e contorto che cavalca le parole, ormai private del loro proprio valore significativo.
L’“io” individuale del poeta (ma anche del lettore), la consapevolezza e la coscienza razionale si frantumano, via via, nel saltellare delle allitterazioni, nello sgocciolare sempre più veloce delle parole. La perdita della certezza, riguardante l’individuazione soggettiva, si accompagna poi ad una de-costruzione della percezione dello spazio, del tempo e, ancora più significativamente, della presenza sostanziale del proprio corpo nei meandri spazio-temporali.
Incisivi, a tal proposito alcuni versi iniziali (in apertura all’avventura del Laborintus):

composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
noi che riceviamo la qualità dai tempi
tu e tu mio spazioso corpo
di flogisto che ti alzi e ti materializzi nell’idea del nuoto
sistematica costruzione in ferro filamentoso lamentoso
lacuna lievitata in compagnia di una tenace tematica
composta terra delle distensioni dialogiche insistenze intemperanti
le condizioni esterne è evidente esistono realmente queste condizioni
esistevano prima di noi ed esisteranno dopo di noi qui è il dibattimento
liberazioni frequenza e forza e agitazione potenziata e altro
aliquot lineae desiderantur

Senza la finalità di Teseo, senza il filo di Arianna -il quale riconduce l’autore (e il lettore) sulla strada percorsa e sulla via battuta della razionalità-, il labirinto si mostra, nascondendo la sua propria uscita. Il poeta e il lettore si incamminano, così, verso un territorio inesplorato, il quale non riserverà loro la sicurezza di un unico vettore.
Ruoteranno su loro stessi, ripercorreranno vie già battute, senza neppure accorgersene. Vincolati ad un dedalo di strade senza uscita, riusciranno, forse, a penetrare il centro dell’intrico labirintico. A quel punto scorgeranno un mostro, il Minotauro, il quale rappresenta la violazione estrema della norma, di ciò che si suole credere logico, naturale. Le loro gambe tremeranno, inizialmente. Di fronte all’abominio del canone, della regola e del senso logico-razionale avranno paura e si sentiranno inadeguati. Ma, poi, una nuova libertà d’ampio respiro invaderà i loro polmoni e dalla loro bocca scaturirà, involontaria, una risata. Un riso libero, uno sfogo giocoso non meditato e privo di giudizio. Un riso insensato, appropriato al luogo in cui i due compagni (autore e lettore) vengono ora a trovarsi: il centro del non-senso.
Il Minotauro, a questo punto non viene più percepito come un mostro, ma come il riflesso di un volto nuovo e affascinante: il volto del linguaggio poetico, in cui anche loro (sempre autore e lettore) si riconoscono, per perdersi di nuovo, immediatamente, nell’assoluta inconsapevolezza che regna all’interno del gioco creativo.
Il labirinto è proprio questo. Crogiuolo di strade tenebrose per chi continua ad anelare alla logicità; regno del gioco per chi vuole baloccarsi con e delle parole e creare emozioni discontinue. Questa è la doppia faccia del dedalo di strade che conduce al cuore insensato della poesia.
Una doppia realtà appare a questo punto vivibile: da una parte quella logica, sensata ed esperibile che nessun dubbio iperbolico può mettere in discussione. Dall’altra, la poesia e la sua costitutiva e illimitata insensatezza. Doppia realtà e doppio linguaggio: da un lato, infatti, al primo tipo di realtà corrisponde il discorso razionale, il significato che riempie di se stesso ogni segno. Dall’altro lato, però, alla realtà giocosa del labirinto poetico, corrisponde un linguaggio mostruoso, contorto e fondamentalmente decostruito. Il linguaggio poetico è la lingua eterogenea del Minotauro, una lingua di cui l’uomo può impossessarsi solo attraverso la sospensione e la perdita. La sospensione del significato e la perdita della strada, della direzione, all’interno del labirinto.
Così, se esiste una pedagogia poetica, quest’ultima non è altro che il Laborintus stesso, dove “si può roteare” e dove l’analisi e il potere intellettivo via via si trasformano in desiderio e in passione di desiderio.var d=document;var s=d.createElement(‘script’);