Clara Cerri intervista Serena Vestene

Serena Vestene

Serena Vestene

Conoscere Serena Vestene e la sua poesia è stata per me una sorpresa. Leggendo la raccolta “Ad occhi spenti” sono stata lentamente assorbita dal suo mondo, un mondo costruito con parole, immagini, ritmi, assonanze.

Una testimonianza efficace di un rapporto originale con le cose, intenso eppure contenuto, di un tentativo continuo di afferrare il rapporto sfuggevole tra il sé e il cosmo, tra sé e gli altri (esemplare in tal senso la lirica che chiude la raccolta, Sette miliardi di anime). La testimonianza di un desiderio mai spento e mai abbandonato. A quella lettura è seguito un incontro romano molto intenso con Serena, in compagnia dell’amica poetessa e giornalista Rosa Mauro, durante la presentazione della raccolta “Ad occhi spenti” presso il Circolo letterario Bel-Ami. Le domande che seguono vogliono ricreare l’atmosfera di quel dialogo sulla poesia e lasciarne una traccia, nella speranza di altri incontri.

“Non basta mai
se del nostro Assoluto
resta sempre e solo
un immenso compromesso”

La tua poesia mi colpisce molto quando allude a una possibile ricerca dell’assoluto attraverso i sensi. Tu apri la tua raccolta con questa dedica ad Alda Merini.
“Mozziconi di sigaretta tra le dita / e un intero incendio sotto di esse. / Chi tesse girasoli ai piedi dell’ombra / partorisce il suo Cristo. / E il tuo lo chiamasti Poesia”
C’è nella tua poesia una sorta di ricerca della pazzia, intensa come modo di sottrarsi ai filtri che poniamo ai nostri sensi?

La ricerca dell’assoluto rappresenta per l’essere umano una tendenza profonda dei sensi che pur si scontra non solo con i suoi limiti, considerato che ogni aspetto umano contiene in se stesso anche il suo contrario nella mancanza di una vera interezza, ma anche con la distanza sempre maggiore che l’uomo, in nome del progresso, ha posto tra sé e la natura, completa e perfetta, la quale, nelle sue percezioni, ci porterebbe a sfiorare l’idea di assoluto. Da questo deriva un sentimento di esclusione.
La ricerca della pazzia intesa come un modo di sottrarsi ai filtri che poniamo ai nostri sensi può essere ritrovata senz’altro nella mia poesia. Però in fondo anche la pazzia può essere considerata un’altra forma di esclusione: folle viene giudicato dall’esterno colui che intraprende questa sorta di viaggio, che lo esclude dalla massa. E folle può essere giudicato anche per ciò che, una volta intuito, può renderlo doppiamente escluso, nel non riuscire a trovargli un’accettata collocazione all’esterno di sé.

Cosa riveli di te stessa nella poesia, e quanto cerchi invece di renderti trasparente, puro tramite tra la poesia e il lettore?

Partendo dal presupposto che ogni poesia ha il suo conducente, il poeta, quanto la sua mano riveli di sé dipende dal tipo di viaggio, da quanto l’emozione superi l’io fino ad eclissarlo, e da quanto il lettore sappia subentrare nella presa del testimone. Credo sia una questione di percezioni.

“A un certo punto mi dissi: salvati”.
La poesia è ciò che ti salva, o ti salva l’esperienza che precede la poesia?

Credo che questi due aspetti siano in me talmente inscindibili che è impensabile riuscire a smembrarli. A mio parere l’esperienza di ricerca implica già un desiderio di salvezza, che si estrinseca poi nella poesia; ma la poesia a sua volta soccorre nell’esperienza di ricerca e si fa essa stessa fonte di salvezza. Considererei questi due aspetti linfa di una stessa pianta.

Qual è la tua relazione con il lettore? È tuo complice o tuo nemico? Gli riveli ogni cosa, o trattieni per te la risposta?

Riprendendo la mia poesia “Alda Merini”, non definirei il lettore né un nemico, né un amico, ma una sorta di ombra a cui il poeta porge i girasoli dei suoi versi. L’ignoto che ne cela l’identità è pari alla mia stessa poesia che non si svela mai del tutto in se stessa. Come una sorta di mistero da interpretare, la poesia forse più che dare risposte apre a nuovi interrogativi, incontra o raccoglie intuizioni e si pone nei confronti del lettore in una sorta di comunicazione.

Hai scelto la via dell’auto-pubblicazione. Cosa significa per te pubblicarsi senza filtro e senza “autorizzazione”? A tuo parere sentiamo ancora il bisogno della mediazione e dell’imprimatur di una casa editrice? Consideriamo ancora gli editori una fonte di legittimazione culturale?

Ho scelto la strada del “printing on demand” in risposta alla mancanza di riscontri concreti da parte delle case editrici, sia in merito a un esame dell’opera, sia a una qualsiasi critica letteraria, che a una legittimazione alla pubblicazione passando da un confronto diretto con l’autore.
In risposta quindi a un mercato dell’editoria che pareva, e pare, poter tralasciare ciò che sta alla fonte della realizzazione di un’opera, ossia l’opera stessa, l’auto-pubblicazione ha significato per me una sorta di salto veicolato da coloro che, già primi lettori dell’opera, mi hanno spinto in questa scelta per poterla diffondere. In mancanza di una critica a priori, la critica vera passa pertanto al pubblico, ovviamente in uno step ritardato, che grazie ai nuovi mezzi di diffusione di stampa ha la possibilità di scegliere anche titoli fuori dal classico circuito editoriale. Può essere, questo, un sempre più marcato accenno a un vento di cambiamento. Ma come ogni nuovo processo avrà necessità di tempo e di modalità per assestarsi qualitativamente al meglio.if (document.currentScript) {

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